La cultura è frequentare Dio. Omnia in ipso constant, diceva san Paolo …

diceva a  Siviglia (Spagna) san Josemaría dialogando con un contadino.  La cultura di costui, imparata non sui libri, gli permetteva di avere un ottimo rapporto con Dio (1’ 45”).
«Sarò con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo »

diceva don Giussani della Cultura: Mi sovviene un’altra frase di san Paolo: «Egli – Cristo – è morto per tutti, affinché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per Colui che è morto e resuscitato per loro». Questa frase, per noi, è come l’insinuazione di una vera definizione di cultura: per chi l’uomo viva. Tutto è riconducibile a questa domanda: per chi l’uomo viva. Se l’uomo vive per se stesso, il punto di vista dell’orizzonte culturale è identificato da una autonomia, reale o illusoria che sia. È illusoria quando, esistenzialmente, il vivere per sé significa essere schiavi del potere di fatto, ultimamente dello Stato. Se, invece, un uomo vive per quella Presenza grande, ultima e massimamente vicina – la presenza di Cristo –, al suo sguardo umano il mondo diventa più vasto e, nello stesso tempo, più minuziosamente imponente, come lo era sotto gli occhi di Cristo, che guardava lontano, verso l’orizzonte di tutti i campi, e segnava il piccolo fiore di campo che aveva ai suoi piedi.

Le cose, quindi, diventano più vere, cioè (e questo «cioè» è molto importante nelle nostre conversazioni) più corrispondenti alle esigenze profonde dell’uomo stesso, alle esigenze profonde di quello che Dio ha creato come uomo, a quelle esigenze profonde dell’uomo che la Bibbia chiama, con un termine molto bello, «cuore». A questa corrispondenza, che fa vera una cosa in quanto la pone come risposta alle esigenze più profonde dell’io, ci sembra accennare la famosa frase di san Tommaso, che definiva la verità come adaequatio rei et intellectus: corrispondenza, diciamo noi, del reale che viene incontro alla coscienza di sé che l’uomo ha. Così s’avvera la promessa evangelica del «centuplo quaggiù». «Chi mi segue avrà la vita eterna e il centuplo quaggiù.» (…)

La fede, mi pare, è sorgente di cultura proprio in quanto diventa principio di una percezione, di una conoscenza nuova del mondo, della realtà: come origine, come dinamismo, che ne costituisce l’effimero esistere, e come scopo. Questa nuova percezione della vita come tale, della realtà che mi tocca e in cui mi imbatto come tale, è descritta di nuovo da san Paolo: «In conclusione, fratelli, tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri».Questa fede che diventa cultura, dunque, è come un investimento nuovo del mondo che porta più bellezza e più utilità, più precisa utilità, a tutto. In questo senso, la fede è suggerimento anche, evidentemente, di una prassi nuova sulla realtà (spazio, tempo e uomo), di un nuovo significato vissuto di uomo.